lunedì 8 novembre 2021

Green pass: violazione del principio di uguaglianza

 

                                                                  Prof.ssa Capolupo Carmela, Unina

Avere paura è un diritto, combattere la paura è un dovere.

  di Capolupo Carmela 

      Il decreto legge 22 aprile 2021, n.52 introduce nel nostro ordinamento la certificazione verde che attesta una situazione di fatto, corrispondente alla condizione di vaccinato, di guarito dal covid o di possessore dell’esito negativo di un tampone, con validità limitata a 48 ore.

  Al rilascio del green pass, in un primo momento, era subordinato l’accesso ad una serie di luoghi aperti al pubblico e, successivamente, con ulteriori interventi normativi che ne hanno esteso la portata, l’esplicazione di alcune di attività, nonché l’esercizio di una serie di diritti fondamentali, dal diritto allo studio, al diritto di svolgere la propria attività lavorativa.

  Ai fini del corretto inquadramento dei nodi problematici sollevati dal contenuto prescrittivo della certificazione verde è opportuno muovere da due premesse.

  In primis, ad oggi il legislatore sembrerebbe essersi ben guardato dall’introdurre un obbligo vaccinale generalizzato, essendosi limitato ad alcune categorie professionali. Per quanto banale possa apparire, è bene tenere a mente che, in assenza di un obbligo, la scelta di non vaccinarsi corrisponde all’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito: il diritto di correre il rischio della malattia. Non c’è solidarietà che possa invocarsi a sostegno di una qualche forma di imposizione. Tanto è in punto di diritto, che piaccia o meno.

  La seconda premessa coinvolge il sistema delle misure sanzionatorie, nella eventualità che si pervenisse all’introduzione dell’obbligo vaccinale. Secondo una opinione largamente condivisa e confermata dalla esperienza delle passate campagne vaccinali, il sistema sanzionatorio per l’inosservanza dell’obbligo non può risolversi in misure limitative dei diritti fondamentali.

  In proposito, giova ricordare che, già a partire dalla legge 24 novembre 1981, n.689, veniva introdotto un regime di depenalizzazione delle sanzioni previste per l’inadempimento degli obblighi vaccinali; inoltre, fino al 1999, l’accesso alla scuola dell’obbligo per i nuovi nati, ad eccezione degli asili nido, era subordinato alla somministrazione di quattro vaccinazioni di carattere generale il cui regime muta radicalmente con il DPR 26 gennaio 1999, n.355, che, pur lasciando inalterato il sistema delle sanzioni pecuniarie, peraltro irrisorie, consente l’accesso alla scuola dell’obbligo anche nei casi di omessa presentazione della certificazione vaccinale. Si deve a ciò aggiungere che la normativa allora vigente in materia di controlli e sanzioni, di fatto, non trovava più applicazione. Seguono lo stesso orientamento le misure del piano vaccinale 2005-2007 che consentirono ad alcune regioni di sospendere gli obblighi vaccinali.

  Proprio sulla base della sostanziale attenuazione degli obblighi vaccinali registrata negli anni precedenti, con il decreto Lorenzin si assiste a una inversione di rotta che però non interferisce con il sistema sanzionatorio in maniera particolarmente dirompente.

  Come si è avuto modo di evidenziare, la Corte costituzionale, pur non censurando la disciplina del decreto, non esita ad esprimersi a favore della progressiva riduzione dell’imposizione, un meccanismo che la legge prevede limitatamente ad alcune vaccinazioni, auspicandone l’estensione anche alle altre.

  Alla luce delle considerazioni che precedono, la misura del green pass sembra abnorme: all’assenza di un obbligo vaccinale corrisponde un regime sanzionatorio che, fuori dalla cornice delle garanzie apprestate dall’art.32 Cost., non solo impatta sui diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, ma è ben più drastico di quanto sarebbe consentito fare a una legge che introducesse l’obbligo vaccinale entro i confini dell’art.32 Cost.

  Obbligo vaccinale e green passsimul stabunt aut simul cadent. Assenza dell’obbligo vaccinale e green pass rappresentano una contraddizione in termini: se non c’è obbligo non può esserci sanzione e se c’è sanzione vuol dire che c’è un obbligo dissimulato, surrettiziamente introdotto sulla base di una presunzione di contagiosità del non vaccinato, peraltro smentita dalla stessa scienza, dal momento che le condizioni certificate dal green pass non costituirebbero una prova scientifica della non contagiosità.

  Ne consegue un problema ulteriore che si incentra sulla irragionevole equiparazione dei presupposti cui è subordinato il rilascio del green pass. La condizione delle persone vaccinate, quella delle persone sottoposte al tampone con esito negativo e quella delle persone guarite dal covid, non sono coerentemente assimilabili rispetto alla finalità dichiarata della protezione e tutela della salute pubblica, non lo sono per esplicita ammissione della scienza.

  Ma la violazione del principio di uguaglianza non si limita all’imperativo della razionalità che impone al legislatore di disciplinare uniformemente situazioni uguali e di diversificare per situazioni diverse. L’estensione del green pass all’accesso nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro chiama in campo valori costituzionali come il diritto allo studio che l’uguaglianza sostanziale garantisce ai capaci e meritevoli privi di mezzi. L’onerosità del tampone suggella definitivamente il green pass come una misura irragionevole rispetto alle finalità che si propone e vessatoria per quanti, nell’esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato, scelgono di non vaccinarsi o che, non essendo nelle condizioni di sostenere il costo dei tamponi, si ritrovano nella impossibilità di autodeterminarsi.

  Altra questione ugualmente controversa attiene al trattamento dei dati personali, alla luce dei rilievi critici formulati dal Garante sin dall’introduzione del green pass nella sua versione soft, all’indomani dell’approvazione del decreto legge 22 aprile 2021, n.52 e, da ultimo, con il parere reso sul disegno di legge di conversione del decreto legge 21 settembre 2021, n.127, destinata a riflettersi sul regime dei controlli che, contrariamente alle rassicurazioni del Ministro della salute, di fatto si esercitano attraverso un potere di polizia diffuso in capo a soggetti privi di qualsivoglia qualifica e, per di più, non preventivamente identificabili.

  La protezione dei dati si rivela un parametro significativo del bilanciamento, potendo opporre un argine al rischio che la certificazione verde si trasformi in uno strumento di controllo di massa, interferendo altresì con il principio di autodeterminazione in campo sanitario; ma la tutela della privacy gioca un ruolo importante anche per la sua potenziale incidenza sulla propensione delle persone ad accettare la limitazione: quanto più contenuto è l’impatto sulla privacy, tanto più sostenibile risulta l’equilibrio tra la finalità della tutela della salute e le limitazioni imposte con il green pass. Proporzionalità e non discriminazione sono presupposti imprescindibili di una soluzione accettabile, ovvero di un equilibrio sostenibile nella misura in cui la promozione della libertà avrebbe reso sopportabile il sacrificio da patire, sul modello del green pass introdotto dalla normativa europea , con il limitato scopo di promuovere la circolazione tra gli stati membri attraverso la certificazione delle vaccinazioni nazionali.

  Come è stato evidenziato, la differenza tra la soluzione legislativa adottata in Italia e il modello europeo assumerebbe rilievo giuridico sul piano teorico e applicativo: la certificazione europea si limita a una funzione informativa finalizzata ad agevolare la circolazione nei paesi UE, evitando la quarantena, dunque una natura meramente informativa, laddove nella legislazione italiana le conseguenze del green pass assumono carattere normativo-prescrittivo. Muovendo da questa premessa si è puntato l’indice sulla legislazione italiana, anche per la presunta violazione della normativa europea, con specifico riferimento al Regolamento UE nella parte in cui, al punto 6 del considerando, si afferma la necessità che «tali limitazioni siano applicate conformemente ai principi generali del diritto dell’Unione, segnatamente la proporzionalità e la non discriminazione». Che tutto ciò possa poi condurre alla conseguenza estrema della disapplicazione da parte dei giudici della legge italiana appare difficilmente sostenibile, se non altro per la debole prescrittività di cui sono dotati i «considerando» nell’ambito degli atti normativi UE.

 Nel corso del mese di gennaio 2021, l’Assemblea parlamentare del Consiglio di Europa, richiamandosi all’art.9 della CEDU e alla Convenzione di Oviedo, ha adottato una risoluzione che, tra le altre cose, invita gli Stati membri a garantire una corretta informazione, affinché i cittadini siano messi al corrente della non obbligatorietà del vaccino e nessuna pressione sia esercitata se non si desidera vaccinarsi, nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato o per non volersi vaccinare, siano distribuite informazioni trasparenti sulla sicurezza e sui possibili effetti collaterali dei vaccini, sia garantita una informazione trasparente sul contenuto dei contratti con i produttori dei vaccini al fine di renderli disponibili al controllo parlamentare e pubblico. A fronte delle indicazioni del Consiglio, per quanto non vincolanti per gli Stati membri, i fatti hanno preso tutt’altra direzione.

  A provarlo è il clima di lacerazione sociale in cui si contrappongono due opposte fazioni, un clima in cui anche la più elementare e spontanea aspirazione a comprendere qualcosa in più, a manifestare un dubbio, sembra essere stata letteralmente travolta da una ondata di irrazionalità che infuria alla ricerca di miscredenti da redimere o di responsabili da stigmatizzare pubblicamente.

  Descrive bene questo scenario chi recentemente poneva l’accento sul venir meno dei principi della logica aristotelica, talvolta anche tra gli interlocutori più avveduti: è come se difronte alla incapacità di condurre un ragionamento alla stregua di quei principi, il cervello andasse in arresto, cedendo il passo a reazioni di un populismo quasi astioso, nella affannosa ricerca di un responsabile.

  E allora è doveroso chiedersi e provare a capire cosa non ha funzionato, muovendo proprio dalla lettura della risoluzione del Consiglio d’Europa che chiama in campo il ruolo delle istituzioni e, segnatamente, il ruolo della politica nel suo controverso rapporto con la scienza.

  Non v’è dubbio che il buon esito della campagna vaccinale, al pari di tutte le misure di contenimento, sia largamente condizionato dal sentimento di appartenenza a una comunità, ovvero dalla percezione che ognuno debba rinunciare a qualcosa per il bene di tutti; si allude a quel senso di condivisione che, per quanto connaturale possa essere alla socialità dell’indole umana, deve potersi alimentare della fiducia che le istituzioni dovrebbero infondere e che ad esse ritornerebbe in termini di legittimazione, in un circolo virtuoso in cui, tra l’altro, nessuno spazio sarebbe concesso a quanti, strumentalizzando la paura, cercassero facili consensi.

  Se è vero che in campo sanitario la scelta politica è guidata dal faro della scienza, tanto più nella gestione di una emergenza, non per questo la scienza si pone come unico parametro di legittimità della produzione normativa. La politicità delle scelte esige che il dato scientifico sia raccordato con una serie di variabili di contesto e con le istanze sociali che non possono essere ignorate o, peggio ancora, deplorate e censurate. Quando la decisione politica è condizionata dalla scienza vanno in tensione le garanzie giurisdizionali dei diritti, dunque diventa cruciale che gli obiettivi posti dalla scienza si realizzino nella rigorosa osservanza dei valori costituzionali.

  È anche questo il terreno sul quale la partita della lotta al virus si vince o si perde.

Se la scienza non è democratica, a maggior ragione, lo devono essere i processi decisionali, puntando sulla trasparenza, sulla adeguatezza delle informazioni, sulla conoscenza delle risultanze scientifiche, sulla garanzia del controllo sulle istituzioni dalle quali si acquisiscono i dati scientifici.

  E in fatto di trasparenza a dir poco emblematica è la vicenda dei rapporti contrattuali intercorsi con le case farmaceutiche impegnate nella produzione del vaccino, promesso da Ursula von der Leyen come il «bene comune universale». Risale a metà novembre del 2020 la prima richiesta inoltrata presso il Ministero nella forma dell’accesso civico, volta alla acquisizione dei documenti contrattuali. Si deve attendere fino al 25 febbraio 2021 per leggere la risposta del Commissario straordinario in cui, tra le altre cose, di legge: «devo mio malgrado rappresentarle che gli accordi sottoscritti con le case farmaceutiche per la fornitura di vaccini sono di fatto secretati, e questo vale tanto per gli accordi preliminari conclusi dalla Commissione europea quanto per i conseguenti ordini di acquisto attivati dai singoli Stati dell’Ue, tra cui l’Italia […]Questi contratti sono tutelati per motivi di riservatezza e tale tutela si giustifica per la natura altamente competitiva di questo mercato globale […] la segretezza è motivata dall’esigenza di tutelare i negoziati sensibili e le informazioni commerciali, specie le informazioni finanziarie e i piani di sviluppo e produzione […]Pertanto devo esprimere formale diniego alla richiesta»

  Una politica che si ritrae dalla sua funzione decisionale, dissolvendosi nel dato scientifico, alimenta la divisione sociale per la naturale tendenza a confinare una serie di istanze sociali, culturali e personali nell’alveo dell’irrazionalità e, quindi, in una condizione che spesso è percepita  quasi come deplorevole.

  Il rischio è quello di generare una sorta di dissonanza cognitiva, per cui il vaccino diventa un atto di fede sul quale non è dato esprimere dubbi o nutrire timori, senza divenire una minaccia per la società, contro la quale si raccoglie facilmente un consenso trasversale, impermeabile a qualsivoglia richiesta di ascolto.

  Tutto ciò, non solo non giova al successo della lotta alla pandemia, ma solleva più di un interrogativo sulla tenuta di quei principi costituzionali la cui affermazione intendeva segnare la definitiva rottura con il passato. Primo tra tutti, il principio pluralista che restituisce un modello di società basato sul valore della diversità che sta poi alla politica ricondurre ad unità, nel rispetto delle posizioni di tutti. Un modello di società in cui quel senso di appartenenza a una comunità non si esaurisce nel richiedere a ciascuno un sacrificio per il bene di tutti, imponendo, altresì, che ci si faccia carico dei timori e delle incertezze di ciascuno, anche di fronte alla scelta tra il rischio del vaccino e quello della malattia. Avere paura è un diritto, combattere la paura è un dovere al cui adempimento non giova la campagna di stigmatizzazione e nemmeno giovano meccanismi discriminatori, giuridicamente insostenibili, come i passaporti vaccinali.

  A questo punto sarebbe auspicabile che il Governo imponesse l’obbligo vaccinale, misurandosi coraggiosamente con gli steccati che la Carta costituzionale erige a fronte di una autorizzazione non definitiva alla commercializzazione, con tutti i problemi che ne scaturiscono, a cominciare dalla necessità di prevedere uno scudo penale per i membri del governo, così come è stato disposto per i produttori del vaccino e per i medici vaccinatori.

  Sul piano delle relazioni tra gli organi costituzionali, il modello di società che ci consegna la Carta costituzionale si riflette nella centralità del ruolo affidato al Parlamento, in quanto organo rappresentativo della complessità sociale.

  La crisi del Parlamento non si è certo manifestata con la pandemia, ma è comprensibile che la gestione dell’emergenza sia apparsa come un one man show, il cui unico protagonista non è stato nemmeno il Governo, ma il Presidente del Consiglio, con un Parlamento ridotto al ruolo di ufficio preposto alla conversione dei decreti legge.

  La storia ci offre un prezioso insegnamento sulle incognite che possono stagliarsi all’orizzonte quando le assemblee rappresentative vengono estromesse dai processi della decisione politica, tanto più quando si tratta di prendersi cura dei diritti fondamentali.

«Se non si pone un freno agli sconfinamenti del Governo sul Parlamento, la pandemia ci lascerà in eredità una democrazia moribonda: adesso, quando il destino impone “tempo per riflettere”, ecco, pensiamo alla Repubblica che vogliamo».

  E allora il Parlamento deve essere a viva voce chiamato in campo, affinché sia scongiurato il rischio di assuefazione alle regole dell’emergenza: la pandemia passerà, ma se ad essa dovessero sopravvivere le regole, alla emergenza sanitaria subentrerà l’emergenza democratica.

  Ulisse per salvarsi dal seducente canto delle sirene si fece legare all’albero della nave, sapendo di correre un rischio. Affiora il ricordo delle parole pronunciate più di un secolo fa dal senatore americano John Potter Stockton: «le Costituzioni sono catene con le quali gli uomini legano sé stessi nei momenti di lucidità, per non morire di mano suicida nei giorni della follia».

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