Prof.ssa Capolupo Carmela, Unina
di Capolupo
Carmela
Il decreto legge 22
aprile 2021, n.52 introduce nel nostro ordinamento la certificazione verde che
attesta una situazione di fatto, corrispondente alla condizione di vaccinato,
di guarito dal covid o di possessore dell’esito negativo di un tampone, con validità
limitata a 48 ore.
Al rilascio del green pass,
in un primo momento, era subordinato l’accesso ad una serie di luoghi aperti al
pubblico e, successivamente, con ulteriori interventi normativi che ne hanno
esteso la portata, l’esplicazione di alcune di attività, nonché l’esercizio di
una serie di diritti fondamentali, dal diritto allo studio, al diritto di
svolgere la propria attività lavorativa.
Ai fini del corretto inquadramento
dei nodi problematici sollevati dal contenuto prescrittivo della certificazione
verde è opportuno muovere da due premesse.
In primis, ad oggi il legislatore
sembrerebbe essersi ben guardato dall’introdurre un obbligo vaccinale
generalizzato, essendosi limitato ad alcune categorie professionali. Per quanto
banale possa apparire, è bene tenere a mente che, in assenza di un obbligo, la
scelta di non vaccinarsi corrisponde all’esercizio di un diritto
costituzionalmente garantito: il diritto di correre il rischio della malattia.
Non c’è solidarietà che possa invocarsi a sostegno di una qualche forma di
imposizione. Tanto è in punto di diritto, che piaccia o meno.
La seconda premessa coinvolge il
sistema delle misure sanzionatorie, nella eventualità che si pervenisse
all’introduzione dell’obbligo vaccinale. Secondo una opinione largamente
condivisa e confermata dalla esperienza delle passate campagne vaccinali, il
sistema sanzionatorio per l’inosservanza dell’obbligo non può risolversi in
misure limitative dei diritti fondamentali.
In proposito, giova ricordare che,
già a partire dalla legge 24 novembre 1981, n.689, veniva introdotto un regime
di depenalizzazione delle sanzioni previste per l’inadempimento degli obblighi
vaccinali; inoltre, fino al 1999, l’accesso alla scuola dell’obbligo per i
nuovi nati, ad eccezione degli asili nido, era subordinato alla
somministrazione di quattro vaccinazioni di carattere generale il cui
regime muta radicalmente con il DPR 26 gennaio 1999, n.355, che, pur lasciando
inalterato il sistema delle sanzioni pecuniarie, peraltro irrisorie, consente
l’accesso alla scuola dell’obbligo anche nei casi di omessa presentazione della
certificazione vaccinale. Si deve a ciò aggiungere che la normativa allora
vigente in materia di controlli e sanzioni, di fatto, non trovava più
applicazione. Seguono lo stesso orientamento le misure del piano vaccinale
2005-2007 che consentirono ad alcune regioni di sospendere gli obblighi
vaccinali.
Proprio sulla base della
sostanziale attenuazione degli obblighi vaccinali registrata negli anni
precedenti, con il decreto Lorenzin si assiste a una inversione di rotta
che però non interferisce con il sistema sanzionatorio in maniera
particolarmente dirompente.
Come si è avuto modo di
evidenziare, la Corte costituzionale, pur non censurando la disciplina del
decreto, non esita ad esprimersi a favore della progressiva riduzione
dell’imposizione, un meccanismo che la legge prevede limitatamente ad alcune
vaccinazioni, auspicandone l’estensione anche alle altre.
Alla luce delle considerazioni che
precedono, la misura del green pass sembra abnorme:
all’assenza di un obbligo vaccinale corrisponde un regime sanzionatorio che,
fuori dalla cornice delle garanzie apprestate dall’art.32 Cost., non solo
impatta sui diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, ma è ben più drastico
di quanto sarebbe consentito fare a una legge che introducesse l’obbligo
vaccinale entro i confini dell’art.32 Cost.
Obbligo vaccinale e green
pass: simul stabunt aut simul cadent. Assenza dell’obbligo
vaccinale e green pass rappresentano una contraddizione in
termini: se non c’è obbligo non può esserci sanzione e se c’è sanzione vuol
dire che c’è un obbligo dissimulato, surrettiziamente introdotto sulla base di
una presunzione di contagiosità del non vaccinato, peraltro smentita dalla
stessa scienza, dal momento che le condizioni certificate dal green
pass non costituirebbero una prova scientifica della non contagiosità.
Ne consegue un problema ulteriore
che si incentra sulla irragionevole equiparazione dei presupposti cui è
subordinato il rilascio del green pass. La condizione delle persone
vaccinate, quella delle persone sottoposte al tampone con esito negativo e
quella delle persone guarite dal covid, non sono coerentemente assimilabili
rispetto alla finalità dichiarata della protezione e tutela della salute
pubblica, non lo sono per esplicita ammissione della scienza.
Ma la violazione del principio di
uguaglianza non si limita all’imperativo della razionalità che impone al
legislatore di disciplinare uniformemente situazioni uguali e di diversificare
per situazioni diverse. L’estensione del green pass all’accesso
nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro chiama in campo valori
costituzionali come il diritto allo studio che l’uguaglianza sostanziale
garantisce ai capaci e meritevoli privi di mezzi. L’onerosità del tampone
suggella definitivamente il green pass come una misura
irragionevole rispetto alle finalità che si propone e vessatoria per quanti,
nell’esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato, scelgono di non
vaccinarsi o che, non essendo nelle condizioni di sostenere il costo dei
tamponi, si ritrovano nella impossibilità di autodeterminarsi.
Altra questione ugualmente
controversa attiene al trattamento dei dati personali, alla luce dei rilievi
critici formulati dal Garante sin dall’introduzione del green pass nella
sua versione soft, all’indomani dell’approvazione del decreto legge
22 aprile 2021, n.52 e, da ultimo, con il parere reso sul disegno di legge
di conversione del decreto legge 21 settembre 2021, n.127, destinata a
riflettersi sul regime dei controlli che, contrariamente alle rassicurazioni
del Ministro della salute, di fatto si esercitano attraverso un potere di
polizia diffuso in capo a soggetti privi di qualsivoglia qualifica e, per di
più, non preventivamente identificabili.
La protezione dei dati si rivela un
parametro significativo del bilanciamento, potendo opporre un argine al rischio
che la certificazione verde si trasformi in uno strumento di controllo di
massa, interferendo altresì con il principio di autodeterminazione in campo
sanitario; ma la tutela della privacy gioca un ruolo importante anche per la
sua potenziale incidenza sulla propensione delle persone ad accettare la
limitazione: quanto più contenuto è l’impatto sulla privacy, tanto più sostenibile
risulta l’equilibrio tra la finalità della tutela della salute e le limitazioni
imposte con il green pass. Proporzionalità e non discriminazione
sono presupposti imprescindibili di una soluzione accettabile, ovvero di un
equilibrio sostenibile nella misura in cui la promozione della libertà avrebbe
reso sopportabile il sacrificio da patire, sul modello del green pass introdotto
dalla normativa europea , con il limitato scopo di promuovere la
circolazione tra gli stati membri attraverso la certificazione delle
vaccinazioni nazionali.
Come è stato evidenziato, la
differenza tra la soluzione legislativa adottata in Italia e il modello europeo
assumerebbe rilievo giuridico sul piano teorico e applicativo: la
certificazione europea si limita a una funzione informativa finalizzata ad
agevolare la circolazione nei paesi UE, evitando la quarantena, dunque una
natura meramente informativa, laddove nella legislazione italiana le
conseguenze del green pass assumono carattere
normativo-prescrittivo. Muovendo da questa premessa si è puntato l’indice sulla
legislazione italiana, anche per la presunta violazione della normativa
europea, con specifico riferimento al Regolamento UE nella parte in cui, al
punto 6 del considerando, si afferma la necessità che «tali limitazioni siano
applicate conformemente ai principi generali del diritto dell’Unione,
segnatamente la proporzionalità e la non discriminazione». Che tutto ciò possa
poi condurre alla conseguenza estrema della disapplicazione da parte dei
giudici della legge italiana appare difficilmente sostenibile, se non altro per
la debole prescrittività di cui sono dotati i «considerando» nell’ambito degli
atti normativi UE.
Nel corso del mese di gennaio 2021,
l’Assemblea parlamentare del Consiglio di Europa, richiamandosi all’art.9 della
CEDU e alla Convenzione di Oviedo, ha adottato una risoluzione che, tra le
altre cose, invita gli Stati membri a garantire una corretta informazione,
affinché i cittadini siano messi al corrente della non obbligatorietà del
vaccino e nessuna pressione sia esercitata se non si desidera vaccinarsi,
nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato o per non volersi
vaccinare, siano distribuite informazioni trasparenti sulla sicurezza e sui
possibili effetti collaterali dei vaccini, sia garantita una informazione
trasparente sul contenuto dei contratti con i produttori dei vaccini al fine di
renderli disponibili al controllo parlamentare e pubblico. A fronte delle
indicazioni del Consiglio, per quanto non vincolanti per gli Stati membri, i
fatti hanno preso tutt’altra direzione.
A provarlo è il clima di
lacerazione sociale in cui si contrappongono due opposte fazioni, un clima in
cui anche la più elementare e spontanea aspirazione a comprendere qualcosa in
più, a manifestare un dubbio, sembra essere stata letteralmente travolta da una
ondata di irrazionalità che infuria alla ricerca di miscredenti da redimere o
di responsabili da stigmatizzare pubblicamente.
Descrive bene questo scenario chi
recentemente poneva l’accento sul venir meno dei principi della logica
aristotelica, talvolta anche tra gli interlocutori più avveduti: è come se
difronte alla incapacità di condurre un ragionamento alla stregua di quei
principi, il cervello andasse in arresto, cedendo il passo a reazioni di un populismo
quasi astioso, nella affannosa ricerca di un responsabile.
E allora è doveroso chiedersi e
provare a capire cosa non ha funzionato, muovendo proprio dalla lettura della
risoluzione del Consiglio d’Europa che chiama in campo il ruolo delle istituzioni
e, segnatamente, il ruolo della politica nel suo controverso rapporto con la
scienza.
Non v’è dubbio che il buon esito
della campagna vaccinale, al pari di tutte le misure di contenimento, sia
largamente condizionato dal sentimento di appartenenza a una comunità, ovvero
dalla percezione che ognuno debba rinunciare a qualcosa per il bene di tutti;
si allude a quel senso di condivisione che, per quanto connaturale possa essere
alla socialità dell’indole umana, deve potersi alimentare della fiducia che le
istituzioni dovrebbero infondere e che ad esse ritornerebbe in termini di
legittimazione, in un circolo virtuoso in cui, tra l’altro, nessuno spazio
sarebbe concesso a quanti, strumentalizzando la paura, cercassero facili
consensi.
Se è vero che in campo sanitario la
scelta politica è guidata dal faro della scienza, tanto più nella gestione di
una emergenza, non per questo la scienza si pone come unico parametro di
legittimità della produzione normativa. La politicità delle scelte esige che il
dato scientifico sia raccordato con una serie di variabili di contesto e con le
istanze sociali che non possono essere ignorate o, peggio ancora, deplorate e
censurate. Quando la decisione politica è condizionata dalla scienza vanno in
tensione le garanzie giurisdizionali dei diritti, dunque diventa cruciale che
gli obiettivi posti dalla scienza si realizzino nella rigorosa osservanza dei
valori costituzionali.
È anche questo il terreno sul quale
la partita della lotta al virus si vince o si perde.
Se la scienza non è democratica, a maggior
ragione, lo devono essere i processi decisionali, puntando sulla trasparenza,
sulla adeguatezza delle informazioni, sulla conoscenza delle risultanze
scientifiche, sulla garanzia del controllo sulle istituzioni dalle quali si acquisiscono
i dati scientifici.
E in fatto di trasparenza a dir
poco emblematica è la vicenda dei rapporti contrattuali intercorsi con le case
farmaceutiche impegnate nella produzione del vaccino, promesso da Ursula von
der Leyen come il «bene comune universale». Risale a metà novembre del 2020 la
prima richiesta inoltrata presso il Ministero nella forma dell’accesso civico,
volta alla acquisizione dei documenti contrattuali. Si deve attendere fino al
25 febbraio 2021 per leggere la risposta del Commissario straordinario in cui,
tra le altre cose, di legge: «devo mio malgrado rappresentarle che gli accordi
sottoscritti con le case farmaceutiche per la fornitura di vaccini sono di
fatto secretati, e questo vale tanto per gli accordi preliminari conclusi dalla
Commissione europea quanto per i conseguenti ordini di acquisto attivati dai
singoli Stati dell’Ue, tra cui l’Italia […]Questi contratti sono tutelati per
motivi di riservatezza e tale tutela si giustifica per la natura altamente
competitiva di questo mercato globale […] la segretezza è motivata
dall’esigenza di tutelare i negoziati sensibili e le informazioni commerciali,
specie le informazioni finanziarie e i piani di sviluppo e produzione
[…]Pertanto devo esprimere formale diniego alla richiesta»
Una politica che si ritrae dalla
sua funzione decisionale, dissolvendosi nel dato scientifico, alimenta la
divisione sociale per la naturale tendenza a confinare una serie di istanze
sociali, culturali e personali nell’alveo dell’irrazionalità e, quindi, in una
condizione che spesso è percepita quasi come deplorevole.
Il rischio è quello di generare una
sorta di dissonanza cognitiva, per cui il vaccino diventa un atto di fede sul
quale non è dato esprimere dubbi o nutrire timori, senza divenire una minaccia
per la società, contro la quale si raccoglie facilmente un consenso
trasversale, impermeabile a qualsivoglia richiesta di ascolto.
Tutto ciò, non solo non giova al
successo della lotta alla pandemia, ma solleva più di un interrogativo sulla
tenuta di quei principi costituzionali la cui affermazione intendeva segnare la
definitiva rottura con il passato. Primo tra tutti, il principio pluralista che
restituisce un modello di società basato sul valore della diversità che sta poi
alla politica ricondurre ad unità, nel rispetto delle posizioni di tutti. Un
modello di società in cui quel senso di appartenenza a una comunità non si
esaurisce nel richiedere a ciascuno un sacrificio per il bene di tutti,
imponendo, altresì, che ci si faccia carico dei timori e delle incertezze di
ciascuno, anche di fronte alla scelta tra il rischio del vaccino e quello della
malattia. Avere paura è un diritto, combattere la paura è un dovere al cui
adempimento non giova la campagna di stigmatizzazione e nemmeno giovano
meccanismi discriminatori, giuridicamente insostenibili, come i passaporti
vaccinali.
A questo punto sarebbe auspicabile
che il Governo imponesse l’obbligo vaccinale, misurandosi coraggiosamente con
gli steccati che la Carta costituzionale erige a fronte di una autorizzazione
non definitiva alla commercializzazione, con tutti i problemi che ne
scaturiscono, a cominciare dalla necessità di prevedere uno scudo penale per i
membri del governo, così come è stato disposto per i produttori del vaccino e
per i medici vaccinatori.
Sul piano delle relazioni tra gli
organi costituzionali, il modello di società che ci consegna la Carta
costituzionale si riflette nella centralità del ruolo affidato al Parlamento,
in quanto organo rappresentativo della complessità sociale.
La crisi del Parlamento non si è
certo manifestata con la pandemia, ma è comprensibile che la gestione
dell’emergenza sia apparsa come un one man show, il cui unico
protagonista non è stato nemmeno il Governo, ma il Presidente del Consiglio,
con un Parlamento ridotto al ruolo di ufficio preposto alla conversione dei
decreti legge.
La storia ci offre un prezioso
insegnamento sulle incognite che possono stagliarsi all’orizzonte quando le
assemblee rappresentative vengono estromesse dai processi della decisione
politica, tanto più quando si tratta di prendersi cura dei diritti
fondamentali.
«Se non si pone un freno agli
sconfinamenti del Governo sul Parlamento, la pandemia ci lascerà in eredità una
democrazia moribonda: adesso, quando il destino impone “tempo per riflettere”,
ecco, pensiamo alla Repubblica che vogliamo».
E allora il Parlamento deve essere
a viva voce chiamato in campo, affinché sia scongiurato il rischio di
assuefazione alle regole dell’emergenza: la pandemia passerà, ma se ad essa
dovessero sopravvivere le regole, alla emergenza sanitaria subentrerà
l’emergenza democratica.
Ulisse per salvarsi dal seducente
canto delle sirene si fece legare all’albero della nave, sapendo di correre un
rischio. Affiora il ricordo delle parole pronunciate più di un secolo fa dal
senatore americano John Potter Stockton: «le Costituzioni sono catene con le
quali gli uomini legano sé stessi nei momenti di lucidità, per non morire di
mano suicida nei giorni della follia».
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